Diastasi addominale: il Servizio Sanitario non sostiene le donne, Diastasi Donna Odv sì!

Pochi giorni fa sono andata al Senato della Repubblica per ascoltare la “governance” sulla diastasi addominale (la governance è “il complesso delle regole e dei processi attraverso i quali sono diretti e gestiti fenomeni collettivi; la governance si riferisce tipicamente al più alto livello decisionale, include la definizione degli obiettivi, della strategia, dei sistemi di controllo, della struttura organizzativa”) organizzata dall’Associazione Diastasi Donna Odv (clicca qui per visitare il sito internet) su iniziativa del Senatore Silvestroni.

Diastasi Addominale: congressoIn qualità di azienda sostenitrice dell’Associazione ho partecipato all’importante traguardo raggiunto dalla presidente Elena Albanese, che da sempre ha un unico obiettivo: l’approvazione a livello nazionale di nuove norme che contrastino le speculazioni che ruotano intorno a questo tema e recepiscano le esigenze delle donne che hanno questa problematica.

A oggi l’Associazione rappresenta più di 35000 donne, ma il numero potrebbe tranquillamente aumentare a dismisura se pensiamo che tantissime persone ancora non sanno dare un nome ai loro disagi e disturbi.

Diastasi addominale: norme datate e da rivedere

Nella sede in cui si legifera, i relatori (per lo più medici, medici dirigenti e direttori di unità operative) hanno affrontato a tutto tondo questo tema delicato che ancora genera confusione, perché confuse e interpretabili sono le norme che lo regolano.

Norme datate (2004) che non tengono conto di tutto quello che oggi si sa sulla diastasi.

Ad esempio che anche 1 donna su 3 a un anno dal parto ha dei problemi legati alla diastasi. Non c’è, però, una formazione specifica nelle figure che ruotano intorno alle neomamme che, sempre più spesso, si chiedono perché non riescono a rivedere “la pancia normale dopo il parto”.

L’informazione preventiva e un aggiornamento del personale sanitario possono rendere consapevoli le donne che, invece, si sentono sole e incomprese. Le conseguenze della diastasi, infatti, non sono solo estetiche. Le conseguenze emotive sono importanti tanto quanto i disagi funzionali (pancia prominente, incontinenza, mal di schiena, ernie i più noti) e, affrontarle mentre si è impegnate nella gestione di un bimbo piccolissimo, rende tutto più difficile.

Diastasi addominale: la disomogeneità normativa genera un fenomeno chiamato “turismo sanitario”

I livelli essenziali di assistenza (LEA, d’ora in poi) rappresentano le prestazioni e i servizi che il Servizio Sanitario Nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, attraverso la gratuità o dietro il pagamento di una quota di partecipazione (ticket), con le risorse pubbliche raccolte con la fiscalità generale (tasse). (fonte Ministero Salute).

Le modalità con cui vengono classificati i criteri di valutazione della diastasi che danno accesso ai LEA sono assolutamente da rivedere: basti pensare che a oggi ogni regione ha un modo tutto suo di stabilire per spendere i soldi pubblici.

Questo determina una pratica fuori controllo definita “turismo sanitario” per cui una paziente che ha bisogno di un approccio chirurgico, si sposta dalla regione di appartenenza (ad esempio la Puglia), verso un’altra (ad esempio il Lazio) che ha nei LEA i sintomi che la paziente manifesta.

Una classificazione univoca permetterebbe di evitare liste di attesa infinite nelle solite regioni che hanno nei LEA delle maglie più larghe.

Diastasi addominale: Associazione Diastasi Donna OdvDiastasi addominale: bisogna aumentare i fondi pubblici

E non finisce qui. Perché i DRG, ovvero le classificazioni che determinano la monetizzazione delle prestazioni, sono anacronistiche e non tengono conto delle innovazioni tecnologiche che possono migliorare i risultati degli interventi garantendo maggior stabilità e minor recidività.

In parole povere attualmente il SSN rimborsa circa 1500 euro un intervento di diastasi. Tutti i medici relatori hanno concordato sul fatto che questo tipo di interventi, per essere fatti al meglio, con le giuste metodiche (robotiche o manuali) e avvalendosi di materiali che abbassano il rischio di recidive, hanno un costo di base di 3500 euro.

Destinare le corrette somme di denaro permette di ampliare le modalità del trattamento (ad oggi quella cifra riconosciuta a malapena copre un taglio e una sutura, che nel 30% dei casi, comporta una recidiva) e il vantaggio di agire risparmiando su larga scala (si risparmia su secondi ricoveri e interventi in caso di recidive, su degenze prolungate, terapia mediche per disturbi cronicizzati).

Ora la domanda è questa: se l’ho capito io (e ragionevolmente anche tu che leggi!) che non amministro soldi pubblici che, conti alla mano, conviene rivedere le regole di base per la definizione dei criteri per il SSN e conviene aumentare i fondi economici destinati a questa patologia, per quanto ancora le istituzioni possono ignorare le richieste dell’Associazione e di tutte le donne che rappresenta?

Se vuoi approfondire all’argomento leggi anche quiqui.

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